Questa riflessione si trova scritta su un cartello all’ingresso di un ex manicomio criminale, ora ospedale psichiatrico giudiziario.
E’ di questi giorni l’approvazione , non ancora definitiva, di una norma che dispone la chiusura entro il 2015 dei 6 o.p.g. ancora operativi nel nostro Paese, strutture fatiscenti e incompatibili con le finalità primarie di cura e di recupero dei malati mentali che hanno commesso delitti.
Esse saranno sostituite da altre strutture in cui sarà prevalente l’attività di cura, pur assicurandosi la custodia per i soggetti ritenuti ancora pericolosi .
E’ il risultato dell’indagine svolta da una commissione parlamentare la quale aveva reso pubblico l’orrore ambientale degli ex manicomi criminali, richiamando inderogabilmente l’esigenza di por mano alla riforma: ma ci vorranno, purtroppo, ancora 3 anni di pseudo vita dei carcerati in quei lager.
Il sovraffollamento e la fatiscenza delle carceri italiane pone problemi analoghi e impone, nel contempo, il reiterarsi di manovre c.d. svuotacarceri, con misure alternative quali ad es. gli arresti domiciliari per gli ultimi 18 mesi di pena da scontare.
Il dibattito politico spinge su articolazioni diverse, con la consapevolezza comune,tuttavia, che il sistema carcerario è un costo che in tempi di crisi non può allargarsi.
Poche sono le risorse disponibili e quindi occorre trovare misure a costo zero. Altre sono le priorità da perseguire, prima fra tutte, il risanamento dal debito pubblico, pari a 1897 miliardi di euro, 120% del PIL.
La condizione del carcerato, privato della libertà per delitto commesso dolosamente o a causa di malattia mentale, è assimilabile a quella di ogni essere umano quando sperimenta la deprivazione e l’accentuata precarietà del vivere.
Fragilità e precarietà sono condizioni comuni della vita, una sorta di costante impermanenza che noi cerchiamo di superare o dalla quale vogliamo sfuggire.
Se riferite all’uomo, esse danno il percorso lungo l’asse della sua storia, a livello individuale e collettivo.
Letteratura
Nasce l’uomo a fatica ed è rischio di morte il nascimento….,
così Giacomo Leopardi nel canto notturno del pastore errante per l’Asia.
Chi vuol esser lieto sia, del doman non c’è certezza: Lorenzo il Magnifico
Carpe diem: Orazio
Nulla si crea nulla si distrugge, tutto si trasforma: Lavoisier
Vita non tollitur sed mutatur: rito nelle esequie cristiane
La natura dell’uomo s’incontra nell’infinito : il tema al 33° meeting di Rimini di Comunione e Liberazione del 19-8-2012
Nato il… morto il… nelle biografie, nei documenti dei comuni e delle parrocchie
Prosegue Leopardi:
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolare dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Commento
Il pessimismo “cosmico” di Leopardi ha un lenitivo che percorre la vita; esso è comune, pur nella consapevolezza che “ è funesto a chi nasce il dì natale”.
Tale lenitivo consente agli uomini di accettare la chiamata alla vita, di approfondire l’istinto di sopravvivenza con desideri, obbiettivi, valori specifici dell’essere umano.
Esso si esprime con atti e parole e quanto più si incontra diffusamente, tanto più esso fa da collante alla nostra specie offrendo molteplici spunti di apprezzamento delle esperienze vitali.
Per converso l’estremo senso di precarietà avvertibile nella solitudine in mancanza di quel lenitivo produce l’abbattimento dell’istinto di sopravvivenza fino al punto, talora, che l’uomo opta per la rinuncia a proseguire.
Lo stato di precarietà quando viene percepito come condizione propria e comune dell’esistere induce a sviluppare inziative e contromisure che presso gli umani possono volgere a risultati di benessere, maggiore sicurezza e progresso collettivo; ne deriva che è la precarietà stessa a spingere verso la cooperazione e lo sviluppo, a rendere possibile scoperte e applicazioni tecnologiche a beneficio di piccoli gruppi o di intere comunità sottoposte alle medesime pressioni del vivere.
La precarietà, dunque, come occasione permanente a rendere il motore dell’impegno umano sempre più affinato e resistente alle usure ed ai pericoli vecchi e nuovi, propri del nascere e dover vivere per un lasso di tempo su questa terra assieme agli altri umani prossimi o lontani, ed alle multiforme forze vitali di un piccolo, finora unico pianeta abitabile.
Il trascurare questo stato, connaturale per tutti gli esseri viventi ,produce comportamenti che inducono egoismi, prevaricazioni, lotte ingiustificate e persino guerre di conquista e sottomissione nel presupposto che l’accaparramento di territori e delle relative ricchezze conducano al benessere; nei fatti così si sono generati nel corso dei millenni di storia umana conflitti fra popolazioni di umani in ogni parte del globo .
In un’ottica di cooperazione, la quale purtroppo neanche ai nostri giorni è divenuta regola e metodo di comportamento collettivo, le diverse popolazioni avrebbero invece rivelato potenzialità diverse di grande pregio e durevolezza.
In un certo senso, così sono nate e sono scomparse le culture e le civiltà per tante popolazioni del mondo.
Messa, ormai, alle spalle la profezia Maya della fine del mondo alla data del solstizio d’inverno 2012, è assai meglio considerare le grandi opportunità che possono derivare per l’umanità tutta dalla globalizzazione del lavoro e dei commerci, della ricerca di base e applicata, in sintesi, della messa in comune di tutte le potenzialità specifiche di ogni popolazione che riempe la terra coi suoi 7 miliardi di abitanti.
Puntare a superare le fragilità, in un comune destino terrestre.Condividere spazi e risorse, riconvertendo territori devastati da politiche aggressive di conquista e di accaparramento di beni e di energie.
Mettere in comune le conoscenze per accelerare il miglioramento delle condizioni di vita da malessere a benessere diffuso, è impegno inderogabile di governance mondiale, potendosi superare la malattia dei nazionalismi .
In sostanza, una riconversione di rotta, partendo dalla consapevolezza della nostra individuale e collettiva fragilità che abbisogna della cooperazione altrui, in tutti i settori dell’esperienza umana.
Per renderla possibile, in un’umanità divenuta stretta entro gli unici confini terrestri, bisogna proporre di rinunciare , gradualmente e con intelligenza a difendere con mezzi discriminatori ed aggressivi quanto assicura ad una minoranza di umani una sorta di scontato benessere, secondo modelli di agire ritenuti inderogabili e da esportare ovunque.
Uno di questi è espresso dal capitalismo finanziario-industriale che infetta da decenni il pianeta.
Un altro è il pensiero unico in campo politico che tiene assoggettate popolazioni, ovunque sulla terra.
Un altro, ancora, è il fondamentalismo religioso che , come risultato, assicura alla lunga solo odio e lotte nell’ingenua convinzione di assecondare i voleri del Dio, come insegnato, come rivelatosi, come inventato o come supposto e necessitato.
La storia dell’umanità è un susseguirsi di conflitti dovuti a pensieri unici.
Le potenzialità delle conoscenze
Oggi, invece, le potenzialità nascoste della conoscenza possono accelerare, attraverso la loro messa in comune, un effettivo progresso dell’umanità tutta in un pianeta che può ancora accoglierci.
Ma solo a patto che noi umani rinunciamo a considerarci i padroni (perché la frase essere padroni a casa nostra , come sottende la malattia del nazionalismo, non consente più e non giustifica più comportamenti incompatibili col vivere comune, col rispetto degli altri e degli ambienti vitali, con l’uso accorto delle risorse e col rispetto degli ecosistemi, in un’entropia crescente e forse incontrollabile).
Utopie, si dirà ed esse in parte così si presentano in confronto con gli accadimenti avversi od ostili che coinvolgono le popolazioni della terra.
Ma, sostengo, partendo da tali fatti, condizioni e precarietà diffuse, che gli uomini possono trovare impulso alla reciproca cooperazione e assistenza, da scegliere quale metodo comune di condotta dei governi locali, nazionali e da un auspicabile effettivo governo mondiale delle nazioni, per quanto attiene i bisogni collettivi inderogabili delle popolazioni.
L’uomo ha sufficiente intelligenza per avvertire che solo in questo trend ci saranno spazi per un benessere comune.
Ma ha motivazioni per mettere in pratica, da solo e insieme agli altri, idee e conoscenze, a beneficio comune?
Ha nuove consapevolezze per abbandonare definitivamente arretratezze ideologiche, culturali, sociali e religiose, in un auspicabile percorso di progresso empatico verso gli altri, i diversi, i meno capaci e i meno efficienti?
E’ consapevole che i destini dell’umanità trovano, ancora per molto tempo, unica possibilità di mantenimento solo in questo unico pianeta, sovraffollato e col fiato affaticato.
che, quindi pensando razionalmente, occorre considerare la densità della popolazione quale parametro primario da rapportare ad un ecosistema compatibile coi principi della vita?
Dalla fragilità di ognuno, che abbisogna di tutto e di tutti per vivere, alla messa in comune delle potenzialità che ciascuno può esprimere nell’arco della sua esistenza.
Sarebbe davvero un’umanità rinnovata e più forte, perché ha messo in comune il lenitivo più efficace e godibile, una volta su questa terra, vale a dire la nostra evoluta ma attaccata ad un fragile filo , comune origine .
27 dicembre 2012