Notizia di cronaca
Lunedi 29 novembre 2010 Mario Monicelli, 95 anni, si è suicidato lasciandosi cadere dal quinto piano di un ospedale di Roma; è stato scritto che era malato di tumore, che ormai era quasi cieco, non più bastevole a se stesso; è stato uno scatto estremo di volontà ha detto Napolitano, recatosi a rendere omaggio alla salma del regista.
E’ stato, però, anche detto, dalla parlamentare Binetti: finiamola con questo avvalorare gesti che indicano piuttosto la disperazione e la solitudine di quanti scelgono di porre fine alla propria vita anzichè viverla fino in fondo.
Nelle talora inevitabili difficoltà che essa presenta non si dovrebbe prendere a pretesto la morte, così brutale, del regista per sostenere, come orienta il prof. Veronesi ,la bontà dell’eutanasia o quanto meno del testamento biologico: vale a dire, sarebbe stato meglio, più civile, che Monicelli avesse potuto chiedere aiuto ad un medico per cessare di vivere, piuttosto che doversi buttare nel vuoto.
Riflessioni
Che dire? Di fronte alla scelta, messa in atto da Monicelli di porre fine alla propria esistenza la compassione e il silenzio sembrerebbero d’obbligo; tuttavia alcune riflessioni s’impongono.
Noi troviamo consolazione, significato e arricchimento nel relazionarci con il mondo esterno; affrontiamo meglio le situazioni difficili condividendo gli sforzi e gli obiettivi; sappiamo che il nostro vivere è precario, ma nella comunanza della sperimentata precarietà possiamo trovare una maggiore inaspettata forza e accettare un comune destino.
Nessuno desidera di star male e l’altrui empatia e compassione dà significanza al tempo dell’esistenza, anche quando si sta male. Purchè lo star male non sia talmente lungo, esacerbato ed escludente le relazioni da far prevalere, talora, all’istinto di vita la scelta di porvi fine.
In tale situazione la scelta diventa intima e non surrogabile per iniziativa di altri, sia pure legati da vincoli di affetto, amicizia o parentela; su tale riflessione si fonda la linea di pensiero che propone il testamento biologico, collocandolo fra le libertà dell’uomo più personali e, conseguentemente, fra i diritti fondamentali.
L’estremo diritto
Anteporre ideologie o fedi religiose per negare questa sorta di estremo diritto dell’uomo, ci riporta indietro di secoli, al principio di autorità, in forza del quale ancora oggi si pretenderebbe di giudicare ciò che è buono e ciò che è male nelle scelte che si indirizzano al proprio essere, senza implicazione , limitazione o prevaricazione dell’altrui esistenza.
Il giudizio ex ante per negare la legittimità di manifestare ultime volontà sul percorso ultimo quando la vita giunge al termine può spingere alla solitudine e a gesti disperati , pur tuttavia tanto umanamente comprensibile.
Noi tutti siamo consapevoli che Godot arriverà; possiamo però stabilire che si devono accettare tutti i termini e le condizioni per il fatto di appartenere alla specie umana?
Quando portiamo o sperimentiamo la compassione l’arrivo di Godot spaventa lo stesso ma forse è un far fronte comune; è un chinare il capo come fa il soldato nella canzone Samarcanda .
La disperazione sembra assente; per chi ha fede nell’al di là, la fine della vita può anzi, essere creduto un buon avvio della felicità senza fine.
Ma qui,più che per ogni altra situazione umana, occorre dire “può, potrebbe” e non “deve”; l’estrema costrizione, anche in presenza di un’opposta volontà, configurerebbe una sorta di inaccettabile integralismo ideologico, culturale o religioso .
Il rispetto dell’altrui scelta sarebbe,invece, l’accettare quale ineguagliabile il diritto dell’uomo alle libertà che sono la cifra stessa del suo esistere, ivi compresa quella di non aspettare Godot ma di incontrarlo andandogli incontro, spostando un poco avanti l’orologio che teniamo al polso.
inverno 2011